Dal dovere dell’insonnia alla scoperta del proprio ritmo: racconto di una notte e la scelta della terapia
“Mezzanotte e quindici. No,venerdì e un quarto. La sveglia sta ancora suonando, solito ritardo. Serro identi davanti allo schermo, e ascolto, a stomaco stretto, l’acido su fino alle labbra. Sullo sfondo, un mio voto: “Sei domani quello che fai oggi”. Me lo volevo tatuare, ma niente. “Non c’è nulla di nobile nell’essere superiore a un altro uomo. La vera nobiltà sta nell’essere superiore alla persona che eravamo
fino a ieri”. La sua versione tenera, sdolcinata e dolcemente ripetuta dalla voce calda di un film a lieto fine.
Scorro. Non manca niente, ora sta a me. Sta solo a me, faccio a modo mio. L’importante è fare. Le parole? Non è il mio mondo. Strappo quel vecchio foglio appeso di sbieco e sfioro il timbro dello scotch sul muro; ha fatto il suo dovere. Ancora odore di cartuccia, le righe si riempiono, il bianco diventa nero, vero come quello sfondo, solo nel mio grattacielo, sorrido : a cosa serve il cuore?.
L’eccitazione del dovere, una strana perversione. Lancio un ultimo sguardo al soffitto e sotto le coperte tremo la mia ninna nanna.
“Sei indietro, devi recuperare”. Chiudi gli occhi. “Non sei come gli altri, non devi mollare“. Svuota la testa. “Devi addormenarti“. Cresci, andiamo.
“Buonanotte”
Mi sono sempre considerato padrone del mio destino ,capace di raggiungere qualsiasi obiettivo mi fossi preposto .Perche? Non ricordo qual è stato quel preciso momento, la catena consequenziale che lo ha attirato o il battito di emozioni che lo ha acceso. A un certo punto era li. D’altronde, in me, ho sempre avuto un po’ di presunzione; quel tipo di presunzione che ti spinge a voler controllare tutto, dalle più
piccole azioni della vita ai sentimenti piu profondi. Ti attanaglia, e solo quando ne sei sopraffatto, nel chiasso tra il volere e il riuscire, impari ad abbassare la testa.
Convinto di saperne più degli altri, credevo che i limiti fossero alibi, magari veritieri, di una pigra paura di fallire e la sopportazione fisica, una variabile infinitamente proporzionale alla voglia di mettersi in gioco. Il corpo, in se, rimaneva un fantoccio da programmare, un pugile da incasso che illuso dal giusto secondo, non avrebbe mai toccato terra. La forza di volontà? Un nobile alleato che non conosce muri
troppo alti o salite troppo ripidi. D’altro canto, cosa si può pretendere da un ragazzino che ha passato l’adolescenza tra filmati di crescita personale e spirito di abnegazione? Il lavoro è l’unico biglietto per la felicità, e alla resa dei conti, pensavo, ogni piccolo sacrificio farà la differenza tra te e qualcun altro.
Non ci sei riuscito? Non hai fatto abbastanza, non hai dato abbastanza. Questi pensieri erano la mia ancora. Formatisi su un carattere competitivo-ossessivo, avevano trovato le condizioni ideali per prosperare ed estremizzarsi, e ora, mi tenevano al guinzaglio; costretto in un piccolo punto d’oceano, l’ancora era diventata zavorra e mi stava portando affondo.
Le giornate andavano avanti in un grigio tran tran scandito da sveglie e routine , un matrimonio di conti alla rovescia dove le relazioni avevano le lancette e le emozioni il naso lungo. Cercavo di ritagliare tempo ovunque : i pasti, il sonno, le uscite, i pensieri; le più stupide attività quotidiane erano clessidre e cronometri di un castello di sabbia costruito troppo a riva.
In un ritornello di devi e dovevi, il tempo, poco, trascorreva in fretta, e anche lo svago, scientificamente sedato e svuotato della sua essenza, era diventato un dovere, ridotto a pillola per bocca da prendere per tirare avanti, per recuperare energia. E io, come un bambino a cui ridanno il giocattolo troppo tardi e non lo vuole più, ormai ne avevo dimenticato il piacere, e dietro le sbarre della mia presunzione, giocavo, a contare i numeri cercando di finirli ,finche’, l’ostinazione, annoiata, è divenuta perversione.
Non studiavo più per un fine, ma per studiare di più del giorno prima; Non uscivo più per piacere, ma per dimostrare ;Non piangevo più per sfogare ,ma per l’estasi di non esserne toccato. Mi stavo annodando una corda al collo, e, preso dal gioco, tanto più la stringevo, tanto più volevo stringerla. Nella testa la mia voce rimbombava:
“non dormi?”
“non dormi?!”.”Svuota la mente.”
“Ora mi addormento”. “Non pensare.”
“Ci devi riuscire”.
Mi giro. Respiro.
“Devi addormentarti”. “Devi dormire”.
I battiti. Respiro. Respiro.
“Dormi!”.
Respiro. Lo stomaco.
“Cambia la sveglia!”.
Accendo la luce. Sensi di colpa. Sensi di colpa.
Prendo il computer. Niente. Un libro, scorro le pagine, una riga dietro l’altra. Mi alzo.
“Controllati, controllati!”….
“Ricordati chi sei”…..”ricordati”
Forza di volontà….
“Non mollare”. “Ce la devi fare”.
Forza di volonta’ …
Mi serve acqua.
Ho bisogno di silenzio. Perchè va tutto a scatti? Perchè non c’è nessuno? Seduto sul materasso, nascondo le mani tra le gambe. Nascondo le occhiaie tra le lacrime. Alzo la serranda, sta piovendo.
Ho perso.
“Come va?”, “Hai dormito?”. A volte basta un gesto d’affetto per farti sentire commiserato, e io, che di normalità non ne avevo mai voluto sapere, ora, sentivo che la sua mancanza mi faceva stare male. Ero arrivato al capolinea, avevo perso ogni controllo su di me, soffocato dal rifiuto di immaginarmi diverso e divorato dall’incubo dei miei primi limiti. La città di certezze, che avevo costruito su un quadro
di cui non avevo mai apprezzato la bellezza, ne aveva bucato la tela, e ora, stringevo la cornice.
Ormai fuori controllo, avevo provato ogni tipo di rimedio medico. Cavia da supposte per il sonno, avevo ingoiato illusioni su illusioni ,e disilluso, andavi avanti per effetto placebo, ritratto vivente di un sonnambulo sotto dose.
Avevo bisogno di un altro tipo di aiuto.
Chi siamo: noi stessi o chi vogliamo essere?
Ricordo di presentarmi cosi. Da sempre la mia domanda retorica. Giudizio sociale? Il problema è come giudichi te stesso. Per quanto mi riguarda, era la paura minore. Non era la prima esperienza, ma la prima volta che la decisione partiva da me. Mi ero imposto un unico
vincolo: Fiducia. Per come ho sempre affrontato le situazioni, il primo passo per riuscire in qualcosa è crederci: che sia in te, a chi ti affidi o di chi ti fidi. Almeno all’inizio; non partire prevenuto, dare tempo, poi, tirare le somme. Non volevo affrettare di nuovo, un mio classico.
Le sensazioni furono da subito positive. Un approccio pratico, non melodrammatico e non invasivo, che non metteva in soggezione, non richiedeva nessuna accettazione di verità sconosciute, ma presentava più corsie all’interno di un metodo generale, e proponeva la possibilità di valutarle insieme, per trovare il percorso più adatto e conforme alle necessita’. Mi sono sentito subito a mio agio. Da persona che ha sempre apprezzato il pregio di essere diretti in certe dinamiche, ero rassicurato dalla trasparenza degli
argomenti; non si promettevano miracoli, ma un programma definito da seguire a piccoli passi. In più, notavo con piacere, che la problematica non era sminuita: ma considerata in una prospettiva professionale che conciliava come io l’avvertivo e la sentivo addosso con il punto di vista di un occhio competente, in un giusto equilibrio tra empatia e razionalità.
Infatti, nel mio trascorso, il più grande scoglio da paziente, è rendersi conto che la maggior parte delle volte il nostro caso non e’ poi cosi
diverso da altri; abbiamo la tendenza di considerarci primi episodi di patologie sconosciute, medici di noi stessi con inclinazioni apocalittiche, consumiamo il nostro lato psicologico e le nostre facoltà di giudizio. In questa altalena di orgoglio e sconforto, nascondiamo solo il bisogno di sentirci presi a cuore, e in questa chiave, l’escamotage per una fiducia ritrovata è stata proprio la costante percezione di non essere trascurato nella mia unicità, e contemporaneamente sentirmi inserito in un quadro generale costruito sull’esperienza della professione.
Terapia cognitivo-comportamentale, questo il nome del ramo della psicologia pratica che si occupa anche di problemi come l’insonnia, gli attacchi di panico e i disturbi d’ansia in generale.
L’inizio del trattamento prevede l’osservanza di due percorsi paralleli. In primis, dei piccoli interventi immediati, semplici abitudini e mini-compitini, che hanno l’intento di apportare dei lievi ma rapidi miglioramenti. In seguito, si cerca di delineare un profilo, una storia, una mappa che in qualche modo possa aiutare nella comprensione delle cause, delle ragioni all’origine di questa reazione.
Ognuno di noi, nel corso della sua vita, sviluppa, al netto di alcuni fattori, un determinato modo di rispondere a certi stimoli; ovvero, una serie di pensieri automatici, di risposte incondizionate, che, nascoste nel nostro subconscio, ci accompagnano nelle scelte di tutti giorni; formano il nostro modus operandi, la prassi con cui affrontiamo le diverse situazioni a cui siamo soggetti.
Persone differenti, pensieri differenti; niente di nuovo, niente di preoccupante. Il brutto arriva, se, come nel mio caso, certi pensieri prendono completamente il sopravvento su tutti gli altri, in una sorta di totalitarismo senza libertà di parola , e conquistano, anche meritatamente, il fondato appellativo di “distorsioni cognitive”. Un riassunto, detto in breve e a grandi linee.
Io, nel mio specifico, ho trovato fin dai primi incontri, dei piccoli, graduali progressi, che, presi a sè stanti, non rappresentavano nulla di straordinario, ma nella circostanza della mia situazione, ai miei occhi senza speranza, significavano una piacevole iniezione di autostima in un momento tutto nero. Individuati i pensieri nocivi, il lavoro più faticoso, soprattutto da un punto di vista emotivo, è quello di tirar fuori la convinzione necessaria per cercare di limarli, ammorbidirli, farli diventare elastici, democratici, sempre mantenendo la premura di eliminare i difetti conservando i pregi. Questi schemi mentali attraverso cui noi interagiamo, definiscono infatti un po’ la persona che siamo, e l’ipotesi di un eventuale distacco ci tocca, ci intimorisce e come per tutti i cambiamenti, abbiamo bisogno di tempo per
accettarlo. La verità, è che, in un certo senso, bisogna confessare a noi stessi di non essere perfetti, di aver sbagliato, magari senza accorgercene, ma abbiamo imboccato una strada chiusa, e invece di incolpare il nostro corpo per non aver remato controcorrente, dovremmo ringraziarlo, per averci coperto le spalle, ed averci avvisato prima che la situazione peggiorasse.
Mettere queste cose nero su bianco aiuta, sempre. Qualunque sia il problema, scriverlo è il primo passo per prenderne coscienza, per dedicargli il tempo che si merita. Non avevo mai considerato questa virtu’. Angosciato dai miei ritmi incalzanti, non mi preoccupavo di ritagliare un pò di spazio per un’ attività che mi sembrava superflua e prolissa, credendo di poter risolvere tutto tra le righe della mia testa; ma la mente è troppo sfuggente e complessa, e anche lei, di tanto in tanto, ha bisogno di specchiarsi per vedere i propri
difetti. Stavo imparando che non possiamo controllare e prevedere ogni cosa : il tempo, il sonno, i pensieri tuoi, i pensieri degli altri e la maggior parte delle sfumature della nostra vita, sono, per noi, fuori portata. E’ stupido stargli appresso. Per quel che vale, ricordiamoci di dedicare le nostre energie per render felici chi siamo, ora, in questo momento, o chi vogliamo essere domani.
Trascorsi un paio di mesi, avevo recuperato uno stile di vita accettabile ed una serenità appagante; le mie notti, seppur sempre agitate, iniziavano ad essere più indulgenti, e regalavano a volte, anche mareggiate di sonno profondo. Ormai avevo accettato di essere stonato, e avevo imparato ad ascoltare, ad ascoltarmi, e con orecchio diverso, percepivo, nelle ricadute che si presentavano, la vecchia pretesa di
cantare fuori dalla mia ottava; i fantasmi della mia presunzione.
Sirena delle sirene nel mio ego, l’ insonnia, in un tempo sorprendentemente breve, era passata da boia ad
amica; quell’amica che ti sgomita di nascosto quando stai parlando troppo, e che all’inizio non riesci a
sopportare, mentre ora ci giri a braccetto.
Ed io, distolto lo sguardo dalle mie lancette, avevo trovato un orologio interno, che forse, dimenticato così a lungo su una frequenza sbagliata, si era arrugginito e non mi faceva più dormire.
Ad oggi, se da un lato, complice il mio vecchio fuso orario, provo ancora nostalgia per come mi ricordo, guardo ammirato e felice come e’ bella la tela, riparata, del mio vecchio quadro. Ed e’ vero, probabilmente la copia non sarà mai l’originale, ma porta con sè un nuovo pregio: se si buca, la so ricostruire.
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