Pessimismo: perchè vediamo il bicchiere mezzo vuoto ?
A cura della Dottoressa Anna Chiara Venturini, Psicologa Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale a Roma.
Giorni fa mi sono imbattuta in un aforisma che diceva pressappoco questo “Un pessimista è uno che, quando sente profumo di fiori, si guarda in giro per vedere dov’è la bara”. (Henry L. Mencken) ed ho pensato che fossero parole che rendevano a pieno il pensiero del pessimista. Vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, svegliarsi la mattina speranzosi e curiosi verso la vita o al contrario, aprire gli occhi e anticipare negativamente tutto quel che sarà sono due differenti condizioni in cui ognuno può transitare in base alle contingenze. Già, perché non si è mai e per sempre totalmente ottimisti o dei pessimisti cronici; a volte, magari, a seconda del particolare periodo che si attraversa, è possibile manifestare una fase di tolleranza ed ottimismo più marcata o, viceversa, si decide di contrassegnare le proprie giornate con una tinta decisamente più scura, convinti che qualcuno si stia divertendo a farci andare tutto allegramente a rotoli o che il destino si sia scagliato contro di noi. In realtà, al di là delle varie situazioni, in cui può capitare di essere presi da euforia o da insoddisfazione momentanea, c’è in ognuno di noi la tendenza a ragionare ed a rapportarsi con la realtà esterna attraverso due ottiche differenti. Si impara infatti a decodificare la propria esperienza in base alla propria personalità e ai condizionamenti derivanti dall’ambiente e dagli altri, ma non si tratta di una conquista definitiva, ogni essere umano è in continua evoluzione solo che a volte ci percepiamo “fermi” in uno stato d’animo che sentiamo come una sorta di “gabbia”, dalla quale non sappiamo come uscire. In realtà, quella è una gabbia mentale che ci siamo costruiti da soli per difenderci dalla sofferenza, un pessimismo difensivo che tuttavia ci tarpa spesso le ali. Questo difatti non permette una valutazione accurata delle situazioni, portandoci comunque ad anticipare l’esito negativo cosicchè “Se va bene, tanto di guadagnato, se va male, tanto me lo aspettavo”, così da non rischiare nulla. Alla base ci sono esperienze spesso di rifiuto ed abbandono, in cui la persona sviluppa una visione negativa di sé ( non sono degno di amore, perciò vengo rifiutato-abbandonato), degli altri ( mi rifiutano, evitano, sono cattivi e giudicanti) e del mondo ( il mondo va a rotoli ed il futuro è cupo). Si innesca così una sorta di meccanismo che si definisce “profezia che si autoavvera”, ovvero, se si anticipa negativamente un evento si gettano inconsapevolmente le basi affinchè questo di fatto si riveli catastrofico. Pensiamo per esempio ad una giovane ragazza che aspetta che il ragazzo che le piace la chiami al telefono. Passa del tempo e la giovane “indossa gli occhiali del pessimismo” ed inizia a vedere tutto nero; il pensiero diventa quindi “non mi sta chiamando perché è con un’altra”, “ non mi chiama perché non gli interesso”, “ Lo sapevo che non mi avrebbe chiamata”, “ Per chi mi ha preso, crede che sto ad aspettare lui!?”, “Quando chiama vedrai come lo tratto!”. Tutto questo in pochi minuti e ciò fa si che il malcapitato ragazzo quando chiama, venga trattato a pesci in faccia senza sapere il perché, con la ovvia conseguenza di mollare la giovin donzella… Cosa è accaduto? La ragazza si è “ caricata” di pensieri negativi ( nel linguaggio cognitivo comportamentale parleremmo di distorsioni cognitive) con la conseguenza di chiudersi a riccio nei meandri del suo ragionamento, senza contemplare altre soluzioni o possibilità ( non mi chiama perché è occupato, se gli interesso chiamerà). E’ come se si cada in un vortice di catastrofismo in cui l’esito non può che essere negativo, ma dovremmo iniziare a pensare che la responsabilità non è degli altri.
Questo è solo un esempio del pensiero dei pessimisti che in realtà è assai più ampio; per esempio spesso il pessimista non mostra i suoi sentimenti perché pensa che siano fuori luogo, fuori tempo, scontati. A lui piacerebbe moltissimo poterli esprimere e donare finalmente a qualcuno, ma si autoconvince che non sarebbero capiti ed accettati. Inoltre spesso ha uno stile comunicativo e comportamentale passivo, non riuscendo ad esprimere le proprie opinioni e desideri perché non li ritiene importanti o degni comunque di interesse. Il pessimista dunque cammina sul filo di lana teso tra un atteggiamento depressivo e una componente ansiosa, preso dall’evitare giudizio e dall’autoisolamento.
Ma si nasce pessimisti?
Se fino ad oggi si pensava che a determinare un atteggiamento ottimista o nettamente pessimista, fossero fattori di tipo psicologico, legati alla propria personalità o alle diverse esperienze di vita, ora nuovi studi biologico-comportamentali, sembrano svelare nuove realtà.
Ad influenzare il nostro grado di ottimismo o il nostro “umore nero”, sembrerebbero essere i nostri geni e, quindi, componenti del nostro patrimonio ereditario, contro cui la nostra personalità e le scelte volontarie possono inizialmente ben poco.
Secondo gli studi effettuati dall’Università del Michigan, a determinare la visione pessimistica sarebbe il particolare livello di neuropeptide Y (NPY), una molecola del nostro cervello che comporta dei cambiamenti anche nel nostro modo di relazionarci alla vita. Lo studio è stato effettuato mettendo a confronto risposte psicologiche e comportamentali, con l’analisi dell’attività cerebrale; si è evidenziato che chi manifestava un atteggiamento più negativo e pessimista, aveva di norma un livello più basso di NPY e, in risposta a stimoli e parole con valenza maggiormente negativa, dimostrava una maggiore attività della corteccia prefrontale, l’area cerebrale legata alle emozioni.
Questo significa che la natura ci equipaggia di una dose di pessimismo, ma ovviamente sono poi le esperienze della vita, gli insegnamenti che se ne traggono e la nostra resilienza a insegnarci a togliere le “lenti scure” del pessimismo.
Come possiamo uscire dal pessimismo?
Da un punto di vista cognitivo possiamo iniziare ad individuare distorsioni e credenze fitizie su di noi, sul mondo e sugli altri. Per esempio, riferendosi alla situazione a cui abbiamo accennato sopra, la ragazza affermando “Non mi chiama perchè sta con un’altra”, opera una distorsione cognitiva chiamata “palla di vetro”, ovvero una predizione del futuro che in realtà nessuno di noi è in grado di effettuare. Qui il pessimista solleverà l’obiezione “Si ma ogni volta in cui penso male ci azzecco sempre!”. In realtà, sempre come visto sopra, faccio in modo che alla fine il ragazzo che mi interessa esca con un’altra, nel momento in cui le mie reazioni sono quelle che abbiamo visto! Inoltre, al di là della distorsione cognitiva, vi è una credenza intermedia basata sul fatto che per esempio è “l’uomo che deve chiamare la donna” (credenza socialmente e culturalmente stabilita e rafforzata), oppure che se lui ha detto che ci chiamerà e noi non alziamo la cornetta, la credenza potrebbe far riferimento al fatto che “l’uomo non va mai contraddetto” ( credenza anch’essa determinata culturalmente oppure anche familiare, in situazioni in cui vi sono madri molto passive e padri dispotici).
Per quanto riguarda invece il lato comportamentale in parallelo è bene operare delle esposizioni graduali in immaginazione ( con decatrasfofizzazione della situazione, ovvero immagino e costruisco un esito positivo) e in vivo alle situazioni temute, così da sperimentare direttamente quanto, la visione negativa fosse una protezione fasulla, un tentativo vano di anticipare e controllare gli eventi che in realtà hanno un loro corso, a volte si negativo, ma molte altre positivo e ben oltre le nostre aspettative!
Bibliografia
M. Seligman “La costruzione della felicità” RCS, Milano, 2010
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