Paura di restare soli: la sindrome di Bridget Jones batte quella di Peter Pan
A cura della Dottoressa Anna Chiara Venturini, psicologa psicoterapeuta a Roma
Stare con una persona di cui non si è innamorati, portare avanti una relazione perché “meglio accontentarsi piuttosto che niente”, essere fidanzati solo perché ci fa paura essere additati come zitelle o vitelloni.
Già perché se da un lato la società inneggia sempre di più ad una vita felice e spensierata da single ( non ci dimentichiamo che abbiamo risolto anche il problema delle porzioni formato famiglia al supermercato, finalmente monodose!), dall’ altro stigmatizza ancora chi, superati i 30-35 anni non è in coppia, bollandolo come“sentimentalmente sfigato”. E allora chi ce lo fa fare di abbandonare una storia traballante e reinventarci? Perché scavare dentro di noi e scoprire questa paura che ci fa restare legati anche a chi non vorremmo piuttosto che prendere in mano la nostra vita?
La risposta è semplice…. Ci vuole coraggio, davvero molto coraggio a rischiare, a dire “mi merito di meglio”, a vincere la paura di restare soli, Si perché se da un lato Carrie e le sue amiche se la spassano un mondo in Sex and the City, è anche vero che alla fine cedono al matrimonio, per non parlare poi della sindrome di Peter Pan, oramai storia vecchia: la verità è che, se da un lato la vita da single ci piace, ci fa bene e va bene per un certo periodo, dall’altro è chiaro che ci aspettiamo altro, vogliamo altro, ovvero vivere una normale e sana vita di coppia e, quando questo non è possibile, ci raccontiamo di quanto sia incredibile e scoppiettante la nostra vita da single in confronto alla quotidiana monotonia della coppia.
Il fatto è che ci fa male vedere che le nostre amiche o amici si sposano, mettono su famiglia mentre noi restiamo lì in attesa,; ci fa sentire “biologicamente in ritardo” e inadeguati rispetto a quelle che sono le convenzioni sociali rispetto al matrimonio e alla vita di coppia, scandite da ricorrenze come per esempio la festa di San Valentino.
E’ un attimo a cadere nella spirale della cosiddetta “Sindrome di Bridget Jones”, definita anche Anuptafobia, ovvero paura di rimanere single.
Può infatti trattarsi, in casi estremi, di una fobia specifica, ovvero di una paura eccessiva, ripetitiva, incontrollata derivante da una situazione-stimolo di solitudine amorosa, che porta così la persona ad evitare qualsiasi contesto evochi la condizione di single.
La non ammissione di tale angoscia e l’evitamento di contesti che possono far emergere il proprio status, possono essere un rimedio temporaneo ma lungo andare non fanno altro che cronicizzare un disagio.
Diverse sono le motivazioni, non tutte chiaramente accessibili alla coscienza, che possono indurre una persona a ricercare costantemente l’anima gemella. Al di là di uno smodato ottimismo, c’è ben altro: c’è l’anticipazione di un futuro in solitaria che atterrisce poiché non si ritengono sufficienti le proprie risorse per fronteggiarlo; c’è un aggrapparsi all’altro anche se non è presente e disponibile per sentirsi completi e “adeguati”; c’è la volontà di affrancarsi dalla famiglia di origine pur restando profondamente legati nei modelli e nelle scelte di vita ( l’altro non sarà mai all’altezza dell’ideale che hanno i genitori del genero o della nuora perfetta); c’è molto altro, c’è un mondo fatto di fantasmi, ideali, credenze, paure e modelli che imbrigliano la personalità dell’individuo tanto da impedirgli di vivere serenamente la solitudine e “singletudine“.
Si perché difficilmente chi ha paura di restare solo riesce a cogliere la dimensione di scoperta, di viaggio dentro di sé e per sé, alla ricerca delle nostre risorse, dei nostri desideri, delle nostre fragilità e dei nostri punti di forza. L’uomo è un animale sociale e lo stare soli ci appare “contro natura”. Sin da piccoli viviamo in un mondo fatto di relazioni continue: la mamma, la famiglia, la scuola… Se crescendo non si riesce a diventare davvero autonomi, consapevoli della propria individualità, allora non si riesce a capire e apprezzare la solitudine, anzi la si teme.
Sempre di più oggi, si sceglie in questa nostra società di vivere da soli. Siamo terrorizzati dal contatto, nonostante lo sviluppo della tecnologia e l’utilizzo diffuso, per esempio, dei social network: siamo sempre e comunque rintracciabili se qualcuno vuol trovarci, siamo in costante contatto con il mondo. Questo perché si cerca di riempire il proprio tempo con tante attività, tentando di non incontrare la propria solitudine, per non conoscere i propri vuoti, spesso rifugiandosi anche in situazioni di dipendenza che ancora di più svuotano di valore la vita. Invece di chiedere ed esprimere affetto e amore (o odio e aggressività) molti cadono nelle subdole trappole legate a cibo, alcool, farmaci, sigarette, gioco e shopping compulsivo, lavoro in eccesso. Non trovare il tempo per “essere soli” vuol dire non trovare il tempo per se stessi, scappare da se stessi. Applicazioni, funzioni, tasti social, forum: tutto oggi concorre a impedire il contatto con la propria dimensione, con il proprio essere, con il proprio pensiero critico creativo. La solitudine ci dà la possibilità di arrivare dentro di noi, nei nostri lati più bui, ci permette di aprire le ante dell’armadio in cui custodiamo i nostri scheletri e di ravvivare il fuoco delle emozioni rimaste sopite nel caminetto del nostro animo. Imparare a restare soli significa non aver paura di scendere nel proprio mondo, anche se questo significasse scendere come Orfeo negli Inferi; significa imparare ad accettare la parte più malinconica, più spaventata e più terrificante di sé, significa guardarsi allo specchio e ri-conoscersi per quello che si è.
La solitudine, quindi, come conoscenza di sé, come esperienza creatrice e “salvifica”, perché ci salva dalla stagnazione, rimette in moto quella forza propulsiva che porta alla scoperta della propria serenità e del proprio equilibrio.
Raramente tuttavia la solitudine assolve questa funzione creatrice: molto più spesso viene infatti assimilata ad esperienze di perdita, separazione, distacco e abbandono, ed è qui che si nota quanto questo sentimento sia fortemente legato al proprio senso dell’identità. L’identità infatti si struttura sin dalla tenera età attraverso la paura e l’incertezza dell’abbandono della figura d riferimento (caregiver). Ci si spaventa della solitudine proprio perché è sovrapponibile allo stress emotivo da separazione, con quel senso di vuoto e inutilità come se il proprio valore dipendesse dal riconoscimento e dall’accettazione da parte dell’altro. “Io valgo nella misura in cui l’altro mi accetta ed è qui per me” Mentre nella separazione e nell’abbandono il vuoto è determinato realmente dalla perdita della persona cara, nella solitudine questo vuoto sembra non poter mai essere colmato, essendo determinato dall’impossibilità a stabilire contatti profondi e significativi con le persone care: ne consegue una ricerca costante e spasmodica dell’altro, così da riempire quel vuoto interiore scavato dall’inadeguatezza.
Cosa fare?
1) Anzitutto è importante riconoscere la propria paura di restare soli: non c’è niente di male a confrontarsi con la propria paura di restare zitelle o vitelloni, l’importante è sapere che è normale e fa parte della natura umana
2) Allenarsi alla solitudine: dopo una separazione non è mai facile ritrovare un proprio equilibrio; ci si sveglia con una sberla e d’improvviso ci diciamo “e adesso che faccio?” impariamo a coltivare la solitudine e il nostro spazio ri-creativo, anche quando stiamo in coppia
3) Accogliamo la paura, l’ansia e l’angoscia: quando svaniranno avremo modo di trovare le nostre risorse, scoprendoci più forti di quanto pensassimo
4) Coltiviamo rapporti umani veri e sinceri: circondiamoci di persone che ci vogliono bene e che ci apprezzano, guardare l’altro mentre si stabilisce un rapporto relazionale aiuta a capire molto di noi (se e come siamo accettati, rifiutati, ecc.) e a costruire la percezione di noi stessi
5) Perdoniamoci: la solitudine non è un prezzo che dobbiamo pagare, ma una condizione
Ricordiamoci “Non siamo fatti per stare soli ma nemmeno per stare con chiunque” (Massimo Bisotti, 2013″ La luna blu” Edizioni Feltrinelli)
Bibliografia
“Se fa male non vale” Walter Riso, Ed Piemme, 2013
“Cosa ti aspetti dall’amore” Andrea Favaretto, Sperling & Kupfer
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