Trauma dell’attaccamento e relazioni affettive: l’importanza del rispecchiamento affettivo ed emotivo

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A cura della Dottoressa Anna Chiara Venturini, psicologa psicoterapeuta a Roma.

Se pensiamo ai traumi “T”, ovvero al trauma singolo, facciamo riferimento ad un aspetto più accidentale, improvviso, circoscritto nel tempo.

Questa descrizione di trauma non deve però farci perdere di vista una dimensione più evolutiva, quella tipica dei traumi relazionali complessi, traumi “t”, a seguito di grave trascuratezza e maltrattamento precoce, grave e cronico, i cui effetti cumulativi si presentano nell’età adulta sotto forma di sintomi ben precisi e alterazione del funzionamento nelle aree affettiva, sociale o lavorativa.

Una relazione diadica madre-bambino sana, genera, infatti, stati emotivi positivi intensi e alti livelli di dopamina e oppioidi endogeni che consentono lo sviluppo della corteccia frontale, in particolare delle zone orbito-frontali deputate all’auto-regolazione. E’ quindi chiaro che in un ambiente trascurante e un genitore spaventato e spaventante, imprevedibile e a volte anche minaccioso, genera un’esperienza molto intensa difficile da integrare, un’esperienza che i sistemi cerebrali non riescono ad elaborare. Il bambino e poi l’adulto, avranno quindi difficoltà nell’autoregolazione delle emozioni, nella tolleranza della frustrazione, nel riconoscere e valutare le proprie emozioni e bisogni.

Un genitore emotivamente disorganizzato o evitante non ha, infatti, svolto il compito genitoriale di modulare le emozioni e l’esperienza di attaccamento che il bambino interiorizza viene memorizzata in modo disfunzionale. In assenza di un ambiente supportivo il bambino, infatti, non ha le strutture né fisiche né cognitive che gli permettono di modificare la lettura di quanto sta avvenendo, integrando così ogni futuro evento negativo come riconsolidamento dei ricordi traumatici.

Appare quindi chiaro il legame tra traumi dell’attaccamento e relazioni tossiche.

Immaginiamo una famiglia in cui si possono esprimere apertamente i propri bisogni ed emozioni: siamo ascoltati, compresi e nei limiti del possibile le nostre richieste vengono soddisfatte e i nostri genitori ci insegnano a fare altrettanto. Il risultato sarebbe un adulto sicuro di sé che può esprimere i propri bisogni ed emozioni e anche manifestare il proprio disaccordo senza aver paura di perdere l’altro o di essere svalutato. Tutto sarebbe chiaro, non ci sarebbero né manipolazioni, né repressioni emotive: l’io sono è diverso da cosa faccio, il mio valore e il mio essere degno di amore non è vincolato a nulla.

Immaginiamo invece una situazione familiare in cui vi è un genitore abusante o emotivamente assente: il sistema di attaccamento del bambino rimane costantemente in uno stato di iperattivazione allo scopo di ottenere prima o poi, la risposta dell’adulto che però tarderà ad arrivare o non arriverà. Da questo stato di iperattivazione, il bambino crolla poi in una condizione di totale sottomissione pur di mantenere il legame. Quando l’adulto abusante o trascurante si avvicina, viene associato all’esperienza di abbandono subita e si attivano così il sistema di attaccamento e quello di sottomissione. In bambino avvertirà quindi una parte di sé come arrabbiata verso quell’adulto ( sistema di difesa) e una parte invece sottomessa, “giustificante” l’adulto pur di mantenere il legame che gli consente, essendo piccolo, di sopravvivere. Queste attivazioni simultanee e paradossali sono le più adattive che il bambino riesce a mettere in campo quando queste esperienze sono precoci: per sopravvivere, è il bambino a doversi “sintonizzare” sul canale emotivo dell’adulto, disorganizzandosi egli stesso.

E’ evidente come quanto appena descritto sia il medesimo pattern di attaccamento che la persona con dipendenza affettiva presenta nei confronti dell’altro evitante, distanziante, anaffettivo, abusante. La sua richiesta di attenzione-considerazione rimane costante, nell’attesa di una qualsiasi risposta, fino ad arrivare ad una totale sottomissione e annientamento della propria persona pur di mantenere quel legame di attaccamento. La persona smette, infatti, qualsiasi attività in corso perché il sistema di difesa si attiva prepotentemente: quello che sta avvenendo ricorda la situazione traumatica e la difesa è prioritaria. Proprio come un animale smette di mangiare per guardarsi intorno se sente un rumore che gli ricorda un pericolo, allo stesso modo la persona fa una enorme difficoltà a lavorare, uscire, compiere le attività quotidiane perché il sistema di difesa si è attivato, innescato da quello che sta vivendo, in balia di un’attivazione neurofisiologica disregolata.

Nel momento in cui l’altro si riavvicina ( non per amore, ricordiamocelo!), ecco scattare da un lato la rabbia per il comportamento subito ( abbandono, maltrattamento etc..) e dall’altro la sottomissione per non perdere quella parvenza legame : “magari non lo fa volutamente”.

In realtà sappiamo benissimo che non è così e soprattutto è evidente come l’uscita dalle relazioni tossiche non sia soltanto nell’allontanare l’altro abusante, ma anche e soprattutto nell’insegnare alla parte bambina che un attaccamento sicuro e un legame sano è fatto di presenza, costanza, empatia, progettualità, protezione.

La parte bambina resta infatti ferma al momento del trauma e non si rende conto che oggi invece può chiedere, manifestare i propri bisogni ed emozioni, può scegliere chi avere accanto: non un qualcuno da cui difendersi, non un qualcuno da convincere, non un qualcuno da decifrare e interpretare.

Presi dagli impegni quotidiani rimandiamo i pensieri, le riflessioni e le azioni, adagiandoci su qualcosa che in realtà non ci corrisponde e continuando a provare ansia, paura, rabbia, frustrazione o senso di colpa: queste emozioni parlano chiaro e gridano alla costrizione di noi stessi mentre restiamo in una relazione in cui sessualità, intimità e impegno non sono vertici di un unico triangolo (Stenberg) ma elementi scollegati, non necessariamente presenti e su cui abbiamo imparato a sorvolare.

Ricordiamoci che è un nostro diritto esprimere, chiedere, manifestare laddove ci sia margine di incontro e qualora questo non sia presente o si sia ridotto, qualora l’altro non faccia alcun passo verso di noi, è altrettanto nostro diritto fare la scelta migliore per noi: restiamo sulle nostre emozioni, su quello che stiamo provando e non su cosa sta sentendo l’altro e men che meno sui “perché” relativi al suo comportamento. Il focus siamo noi, e siamo gli unici che possiamo cambiare lo stato di malessere.

 

“Puoi cambiare solo te stesso, ma questo cambierà ogni cosa” Gary Goldstein

 

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